Quale carità?
Nel corso degli ultimi decenni, la questione omosessuale sta acquisendo una centralità soprattutto politica e culturale, in quanto essa è al cuore di una possibile svolta antropologica senza precedenti nell’umanità: la ridefinizione del matrimonio e della famiglia sulla base del desiderio individuale e non più della natura umana. Alla base di questa svolta – contro la quale esistono, certo, anche buone ragioni sociali – sta la questione più fondamentale della “carità al singolo”: come evitare, infatti, di dare un diritto così profondamente umano (perché legato alla più alta realizzazione personale, quella dell’amore) come la possibilità del matrimonio al singolo, quand’anche sussistessero ottime ragioni sociali contrarie?
Dunque, la questione in gioco sull’omosessualità si sposta dal piano sociale al piano della carità. E’ a questo livello che occorre dare una risposta filosoficamente convincente, rispondendo alla domanda: “quale carità è la più adeguata verso la persona omosessuale?”

Storia
Un dato di partenza, non secondario: la categoria di “omosessualità”, che oggi è comunemente accettata in riferimento a tale questione, non è esistita sempre, ma è nata solo alla fine del XIX secolo. Quando facciamo riferimento, quindi, a periodi storici antecedenti a questo tempo, è assolutamente insensato parlare di casi di omosessualità: è certamente possibile parlare di uomini e donne che si sono sentiti attratti verso persone dello stesso sesso e quindi di un “desiderio omosessuale”, ma non esisteva il concetto di omosessualità intesa come dimensione costitutiva dell’identità del singolo, come oggi la intendiamo. In passato, infatti, il riferimento era esclusivamente alle “azioni omosessuali” o, usando un linguaggio che è diventato predominante per molti secoli, alle cosiddette pratiche “sodomitiche”.
Il nostro excursus storico comincia con la cultura classica, greca e romana, in cui, a certe condizioni, gli atti omosessuali erano tollerati o addirittura considerati positivamente: ad esempio nell’antica Grecia il rapporto omoerotico era addirittura favorito nell’ambito dell’iniziazione alla vita sociale, mentre per i romani era lecito che il padrone obbligasse lo schiavo a rapporti omosessuali (ma la legge era severissima se si obbligava un libero cittadino).
Il termine “sodomia”, viene coniato da Pier Damiani (+ 1072), nel Liber Gomorrhianus, un’ampia lettera a papa Leone IX, con cui egli vuole scuotere il papato e la Chiesa perché si occupino del “vizio sodomitico” che si diffonde nel clero e nelle comunità religiose. In seguito, la condanna degli atti sodomitici è molto forte e sostanzialmente legata alla motivazione che essi ledono il fine riproduttivo intrinseco all’attività sessuale, violando così l’ordine del creato. Tommaso d’Aquino continua a considerare queste attività come “peccati contro natura” ma introduce una novità, riferendosi non più tanto all’ordine naturale della creazione, ma all’ordine naturale dell’anima, mediante la categoria della “delectatio”, che potremmo tradurre come “vero piacere”. L’amore sessuale rivolto all’altro da sé, alla donna, e alla nascita di un terzo, il figlio, è quello che per il Dottore Angelico fa nascere appunto la delectatio ‘completa’, ossia la soddisfazione della libertà razionale dell’uomo, perché per questa via l’uomo è indirizzato, ordinato verso la sua realizzazione. Molto interessante è anche il realismo di Tommaso, il quale riconosce che anche in un uso innaturale degli organi sessuali vi è una delectatio ‘parziale’, ma aggiunge anche che questa, al contrario di quella ‘completa’, allontana oggettivamente dal proprio destino di bene, ovvero introduce un disordine nell’anima.
Questo trasferimento della questione omosessuale dal piano dell’ordine fisico-naturale all’ordine dell’anima (ovvero della libertà e del desiderio umano) permette a Tommaso di sottolineare un aspetto decisivo e tipico dell’omosessualità, anche per i nostri tempi: da un lato essa è legata al desiderio (e quindi fonte di piacere) e dall’altra non produce danni dal punto di vista fisico. Da qui nasce quella “domanda retorica” che rende la questione omosessuale (e sessuale in genere) particolarmente delicata e scivolosa: se non viene fatto del male fisico a nessuno e si prova anche piacere, che cosa impedisce di decretare la non-condannabilità e, anzi, la bontà dell’atto omosessuale?
Riprenderemo la questione nel corso di questa analisi, quando tratteremo del giudizio morale-antropologico sull’omosessualità.
Proseguendo nell’excursus storico, come detto, sul finire del XIX secolo, subentra il concetto di omosessualità, che non è affatto il modo moderno di tradurre il precedente termine di sodomia. Il neologismo “omosessualità” è introdotto nel 1869 da Benkert (che cambiò poi nome in Kertbeny), scrittore ungherese che trasferisce intenzionalmente la questione in un ambito medico-scientifico, iniziando ad operare, in tal modo, un deciso cambio di prospettiva: l’omosessualità, così definita, nasce come categoria psico-fisica e non teologico-morale e quindi, come tale, “a priori” non potrebbe essere legata al peccato o all’etica. Essa, in quanto “predisposizione”, deve essere giudicata secondo i parametri della medicina o della biologia, non quelli dello spirito.
Anche la moderna disciplina psichiatrica comincia ad occuparsi del problema, nel XX secolo. Nel 1952 il Manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali (DSM) dell’Associazione Psichiatrica Americana include l’omosessualità nei disturbi della personalità (caratterizzati da un comportamento asociale). Nel 1968 il DSM-II cancella da questa lista l’omosessualità, inserendola sotto la voce “deviazioni sessuali”. Sulla base di questa nuova classificazione del DSM si considera l’omosessualità un problema solo quando fosse incompatibile con il concetto di io dell’individuo: se l’individuo si sentiva a proprio agio con il proprio comportamento omosessuale, l’omosessualità non era considerata un problema. Nel 1973 il DSM è stato ulteriormente rivisto e oggi l’omosessualità come tale non è più contemplata dal manuale delle anomalie psichiche in nessun caso. Esiste in realtà un riferimento ad “altri disordini sessuali” dove si fa riferimento a “persistente disagio nei confronti delle proprie tendenze sessuali”, ma si sottintende che questi possano essere riferiti indifferentemente all’eterosessualità come all’omosessualità.

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