L’immagine dell’antico uomo di Pompei, travolto da un masso vulcanico mentre fuggiva, ci colpisce come fosse notizia di oggi, perché ci ricorda il bivio che da sempre è davanti a noi mortali: vivere per rimanere nella morte o per domandare di uscirne?                                             


Qualche giorno fa sono circolate, sul web, le immagini di un uomo che ha trovato la morte a Pompei. La Pompei di quasi duemila anni fa, travolta dall’eruzione catastrofica del Vesuvio. Quest’uomo è stato centrato in pieno da un enorme frammento di pietra, che l’ha schiacciato. Chissà chi era, chissà quali erano i suoi progetti, le sue aspirazioni. Certo non finire ucciso da un vulcano; e non poteva certo pensare che i dettagli della sua morte cruenta avrebbero, un giorno di venti secoli dopo, fatto il giro del mondo.

Non so se avete mai visto i calchi lasciati dai corpi di quei poveretti che la cenere ardente ha ricoperto. La definizione dei particolari è impressionante. Sembrano nostri vicini, addormentati per un istante, invece sono separati da noi da un immenso golfo di anni.

Avevano i loro problemi, lo sappiamo: la corruzione, la violenza, le tasse, chissà che altro. Non l’aborto: a quei tempi si potevano gettare via anche i bambini appena nati, figurarsi quelli ancora da nascere. Sessualità? C’erano gli schiavi; e l’imperatore stesso, Nerone, una decina di anni prima si era sposato con un paio di suoi amichetti. Che in città il mercato del sesso fosse fiorente lo sappiamo per certo, dato il numero di bordelli che sono stati ritrovati. A giudicare dagli affreschi la pornografia non è certo una invenzione contemporanea.


Qualcuno potrebbe dire che per questo, allora, erano felici? Orgogliosi di quello che erano? Forse. C’è gente che si augura che il progresso proceda fino a ritornare a quei tempi antichi. Ci marcia sopra.

Eppure, di quegli antichi pompeiani, oltre ai calchi dei loro resti, ai graffiti sui muri, cosa ci resta? Cosa resta del loro orgoglio?


Le letture della messa domenicale questa settimana ci dicono, con il libro della Sapienza, che

Dio non ha creato la morte
e non gode per la rovina dei viventi.
Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano;
le creature del mondo sono portatrici di salvezza,
in esse non c’è veleno di morte,
né il regno dei morti è sulla terra.
La giustizia infatti è immortale.
Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità,
lo ha fatto immagine della propria natura.
Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo
e ne fanno esperienza coloro che le appartengono.

Mi ha sempre colpito quel “coloro che le appartengono”. C’è un vivere che è appartenere alla morte, perché proprio verso la morte è rivolto. E’ una scelta: forse non puoi scegliere come sei, ma certo puoi scegliere se rimanere nella morte o tentare di uscirne. Se perseguire ciò che è corruttibile e quindi corrotto, oppure la salvezza dal male. Se insegui ciò che muore, fai esperienza della morte. Le appartieni, ancora prima che essa giunga per te. E giunge.

Perché, con tutto l’orgoglio che puoi avere, non sai se domani un vulcano ti scaglierà un macigno di una tonnellata sulla testa. E cosa ti sarà servito vivere?

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