Una lettura filosofica del voto del 4 marzo, dal quale sono emersi vittoriosi un movimento “senza identità” (il M5S) e un partito con un’”identità contro” (la Lega). C’è spazio per un’identità cristiana?

Nel 1994, anno della sua morte, il sociologo e storico Christopher Lasch pubblica La ribellione delle élite, un agile libretto che ancora oggi conserva intatta tutta la sua freschezza. Lasch spiega in maniera chiara la separazione tra la società civile e le élites detentrici del potere economico e culturale. Un capitalismo finanziario sempre più sradicato ha fatto sì che le élites non avessero più bisogno di allearsi con una base popolare, spezzando così ogni legame territoriale. Il tradimento delle élites prepara l’avvento della “società flessibile”: un mondo caratterizzato dalla dissoluzione di ogni appartenenza comunitaria, a cominciare dalla prima comunità naturale (la famiglia) seguita a ruota dal declino dell’amor di patria.

L’ideologia di queste élites è il mobilitarismo: l’esaltazione del movimento per il movimento, utile a giustificare la mobilità continua (o “flessibilità”) delle persone. La nuova parola d’ordine: niente più frontiere. Ma c’è dell’altro: la mobilità obbligatoria e generalizzata (tanto geografica quanto professionale) richiede una rivoluzione culturale permanente per sradicare le persone da ogni appartenenza legata a un luogo fisico. Da qui discende il culto della trasgressione morale e culturale sotto ogni forma, incompatibile con ogni nozione di famiglia naturale (la parola ethos è legata a oikos, alla casa, ricorda opportunamente Massimo Cacciari). La rivolta delle élites non risparmia le forme di governo: anche la base popolare delle democrazie occidentali si trova ad essere costantemente erosa.

Si comincia a parlare di “postdemocrazia”. Con questa espressione si vuole indicare il governo delle élites o il regime delle lobby. Anche se le elezioni continuano a svolgersi regolarmente e a condizionare i centri decisionali, il dibattito pubblico è uno show controllato dall’industria culturale, cioè dagli esperti di comunicazione al soldo di gruppi di interesse rivali. Ma al di là dello spettacolo della competizione elettorale, le scelte politiche fondamentali vengono decise in privato dalla concertazione tra i governi e le lobby che rappresentano quasi esclusivamente gli interessi di pochi potentati economici. Il popolo assiste passivamente a questo spettacolo mentre le élites cercano di trasformarlo in quella moltitudine amorfa e senza personalità conosciuta come “massa”.

La massificazione passa attraverso la concessione delle “libertà licenziose” (libertinismo, divorzio, aborto, droga) di modo che non rimangano altro che individui senza autonomia, schiavi degli istinti, incapaci di costruire relazioni solide e durevoli. In sintesi, è un attacco in grande stile contro la cultura del dono. È una “grande trasformazione” contro cui Pio XII, fin dal 1944, ci aveva messo in guardia. Nella postdemocrazia gli spazi per la partecipazione attiva del popolo alla vita politica si restringono sempre di più. Anche sul piano economico e lavorativo si registra la crescente emarginazione di interi settori della popolazione, in particolare le giovani generazioni, le più penalizzate dal lavoro “senza luogo” (placeless job).

In questo contesto vanno letti i risultati delle elezioni del 4 marzo, con la vittoria del fronte populista nella sua variante di “sinistra” (Movimento Cinque Stelle) e di “destra” (Lega). Il populismo intercetta la frustrazione popolare per una politica presa in ostaggio da lobby e gruppi d’interesse. Si profila la costruzione di un nuovo bipolarismo articolato sulla contrapposizione tra M5s e Lega che alcuni hanno interpretato come una vera e propria controinsurrezione popolare. Il popolo in rivolta contro le élites? È una immagine suggestiva ma, temiamo, senza reale fondamento. È vero: i movimenti populisti forniscono una valvola di sfogo al malumore popolare. Ma al tempo stesso lo incanalano lungo una via senza uscita.

Consideriamo per prima la “sinistra” populista: il Movimento Cinque Stelle, un tipico prodotto di quella filosofia del vuoto che relativizza ogni principio morale. Il populismo grillino è il pensiero debole sotto forma di movimento politico, è un fast food della politica. La natura “liquida” del grillismo si traduce in una sconcertante ambiguità ideologica, come prova la serie di repentini cambi di linea da parte pentastellata (Euro no/Euro sì; Olimpiadi no/Olimpiadi sì; immigrazione no/immigrazione sì; né con la Russia né con gli Usa). Queste oscillazioni sono la manifestazione più eclatante di una ideologia “debole” senza una visione “forte” della società, con la conseguente impossibilità di imbastire un discorso politico organico e coerente. Non c’è gerarchia dei valori. Tutto è sconnesso.

Il M5S è un contenitore vuoto, riempibile con qualunque contenuto. Il relativismo è la sua essenza stessa. Se da un lato permette di conquistare facili successi alle elezioni, attirando persone dai più variegati orientamenti, d’altra parte genera uno stato di anteguerra civile, creando al proprio interno una disomogeneità ideologico-culturale ad alto rischio di conflittualità.

All’apparenza la “destra” populista, la Lega, è tutt’altra cosa. Qui siamo nella casa di una identità “forte”, tetragona. Il partito di Salvini, come pretendono alcuni, non difende forse i nostri “valori”? Quale miglior presidio per la nostra identità cristiana? Il punto è questo: di quale identità parliamo? Perché un conto è l’identità, un altro è l’identitarismo ovvero l’identità trasformata in ideologia. L’identità difesa dalla Lega è una identità negativa, una identità “contro” l’altro da sé (l’Islam, gli immigrati). È una concezione quasi paranoica dell’identità, una identità di difesa che per compattare un corpo sociale disgregato necessità, schmittianamente, di un nemico da sconfiggere.

Occorre ricordare che il cristiano lotta, prima di tutto, per affermare il bene? La sua è una identità positiva, non “anti” o “contro”. Il cristianesimo non è dialettico. Per essere non ha bisogno della negazione dell’avversario. Non conosce la categoria del nemico ideologico.

L’identità cristiana – come ha ricordato più volte Rémi Brague – non è auto-centrica, bensì ex-centrica. La vera originalità della cultura europea, plasmata dalla cultura romano-cristiana, sta nella sua capacità di includere il meglio delle altre culture. È questo il fondamento dell’universalismo dello spirito europeo, che mai si è accontentato di un localismo dalle corte vedute.

D’altro canto, attenzione, se l’Europa ha saputo trarre il meglio non per questo ha preso tutto. Non ha accolto tutto senza distinzioni e gerarchie, ma solo ciò che riteneva compatibile col suo retaggio storico, all’interno di una cultura comune. Se non ha innalzato muri invalicabili, non per questo l’Europa ha rinunciato alle frontiere. La sua natura eclettica non è relativismo, così come il pluralismo non è multiculturalismo.

Il relativismo pentastellato e l’identitarismo leghista sono, per motivi diversi, due manifestazioni di un mondo che avendo rinunciato alle frontiere ha dovuto innalzare i muri per difendere i ponti, come è accaduto a Londra per scongiurare – invano – gli attacchi terroristici.

Anche il contenitore leghista non appare dunque così “pieno” di contenuti, come testimonia la lenta ma inesorabile trasformazione, propiziata da Salvini, in un partito di raccolta sul modello del Front National francese. Per ampliare la propria base elettorale, e quindi il bacino della raccolta volti, la Lega non ha disdegnato infatti di far convivere al suo interno anime inconciliabili come il libertarismo di Giulia Bongiorno e il familismo di Cristina Cappellini. È la stessa operazione tentata in Francia da Marine Le Pen con la convivenza dell’attivismo LGBT di Florian Philippot col tradizionalismo cattolico di Marion Maréchal-Le Pen. E, prima ancora, da Gianfranco Fini con Alleanza Nazionale.

Non sfuggirà quanto una tale operazione di de-ideologizzazione, funzionale all’estensione dell’area del consenso, sia destinata ad avvicinare i leghisti ai pentastellati. Come se identitarismo e relativismo non fossero altro che maschere indossate per coprire il medesimo vuoto, per celare la stessa mancanza di sostanza.

Ma non è l’unico elemento di contatto. I due populismi, di “destra” e di “sinistra”, parlano entrambi alla pancia attingendo a quel misto di paura, rabbia, confusione che agita le masse. Anche la Lega fa leva sull’uomo pulsionale prodotto dalla “mutazione individualistica” del ’68 e resa “pop” dalle televisioni berlusconiane: il bimbo viziato, dagli infiniti desideri, che mendica lo scudo protettivo di un “padre terribile”. È sul sottosuolo della paura per la perdita delle sicurezze materiali che proliferano le “identità armate” e la ricerca di un “sovrano” al quale hobbesianamente sottomettersi. Il salvinismo prospera sull’istintuale, sfrutta pulsioni primordiali come la paura e la rabbia.

L’uso politico della paura è il contrassegno del machiavellismo. Gli imprenditori della paura sono realisti della forza, non realisti cristiani. Maritain lo ha visto bene: «Machiavelli pensa che gli uomini nel loro comportamento ordinario e più frequente sono bestie guidate dalla cupidigia e dal timore. Ma il principe è un uomo, cioè un animale da preda dotato di intelligenza e di calcolo. Per governare gli uomini, cioè per godere del potere, il principe deve istruirsi presso il centauro Chirone e imparare da lui a diventare allo stesso tempo volpe e leone. La paura, la paura animale, e la prudenza animale elevati a coscienza e trasformati in arte umana, sono dunque i regolatori supremi del regno della politica». (Jacques Maritain, La fine del machiavellismo, tr. it. La Locusta, Vicenza 1962, p. 14)

I populismi non sono vere alternative. Come cristiani abbiamo un dovere: spenderci senza riserve per dare vita ad un’alternativa veramente popolare, non elitaria né populista. Una alternativa ragionata radicata nel senso comune, non fatta di paure viscerali, per esaminare tutto e trattenere ciò che è buono.

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