A un mese circa di distanza dalla celebrazione del centenario del Partito Popolare, è curioso notare come la galassia cattolica abbia espresso un giudizio pressoché unanime sul movimento di don Sturzo: in sostanza, si tratterebbe di esperimento che sarebbe da dichiararsi chiuso definitivamente e non se ne parli più.

Paradossalmente, questo giudizio negativo sul “partito cattolico” proviene con più forza proprio dal fronte pro-vita, ovvero da vari siti (ad esempio La Bussola, Tempi, Riscossa Cristiana – l’unica eccezione pare essere quella de La Croce) che difendono apertamente quei principi antropologici (“non negoziabili”) che sono da sempre il cuore della Dottrina Sociale della Chiesa e che oggi sono violentemente sotto attacco proprio da parte della politica.  

Ma su quale argomento si fonda tale sentenza inappellabile? A rigor di logica, se si trattasse di fallimento definitivo del partito dei cattolici, il male dovrebbe essere rintracciato nella sua stessa origine: se qualcosa infatti ha un’origine buona, può sempre essere corretta in caso di errore e riportata al suo valore. E difatti questa è la tesi di Stefano Fontana de La Bussola che ha il merito di portare il ragionamento alle estreme conseguenze: “Accettare sempre più coerentemente e pienamente la laicità della politica produceva l’inutilità del riferimento religioso nella presenza politica dei cattolici e quindi il loro ‘suicidio’ come tali”.

Ovvero, l’errore, secondo Fontana, è stato all’origine: quello di don Sturzo e compagni di accettare la sfida della laicità della politica ovvero la sfida della Modernità. E in questo senso il giudizio converge paradossalmente con quello del fondatore del Partito Comunista Italiano, Antonio Gramsci, secondo il quale, scrive sempre Fontana “i popolari avrebbero modernizzato le classi contadine e, così facendo, le avrebbero consegnate nelle mani dei comunisti”.

Ebbene, leggendo Del Noce, pare proprio che le cose non stiano così: il problema non è stato la nascita del Partito Popolare, ma piuttosto un “peccato” successivo, ovvero una drammatica scelta storica dei cattolici che ha provocato il lento suicidio che poi in effetti si è verificato. E l’aspetto più interessante è che questo errore è paradossalmente simile a quello che oggi gli stessi cattolici stanno compiendo.

Quale è stato, quindi, questo peccato che ha introdotto la morte nel mondo della politica cattolica italiana?

Per rispondere alla domanda, bisogna andare al “momento” in cui l’errore si è definitivamente compiuto: Del Noce individua nel referendum sul divorzio del 1974 il primo avvenimento in cui si è reso evidente che il soggetto che guidava la storia italiana a livello intellettuale e morale non era più quello cattolico, ma quello gramsciano; e, cosa ancor più significativa, questo avveniva paradossalmente al culmine di un trentennio di governo da parte dei cattolici (Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, pagg. 255-256).

Che cosa è successo dunque intorno al 1974? Che i cattolici sono caduti perfettamente nella “trappola” del fondatore del Partito Comunista. ​Insomma, negli anni ’70 iniziava a compiersi non tanto la profezia di Gramsci (il suicidio politico dei cattolici) ma quello che sarebbe più corretto definire come il suo preciso progetto politico-culturale (insomma, un vero e proprio “omicidio cattolico”, nella metafora): occupare fisicamente tutti i luoghi dove si costruisce l’educazione del popolo (giornali, scuole, università, magistratura…) in modo da sostituire nei cuori degli uomini il criterio di scelta religioso con il nuovo criterio illuminista dell’ateismo portato al popolo e dell’autonomia radicale della ragione dal bene e dal vero.

Insomma, se è innegabile che il peccato originale ci sia stato, sarebbe ingeneroso attribuirlo tutto ai soli cattolici delle origini (don Sturzo e amici) dimenticando totalmente “il tentatore”, ovvero Gramsci e quell’egemonia culturale comunista la cui azione ha cominciato ad essere tremendamente efficace a partire dagli anni ‘70 e ha avuto una parte molto rilevante anche in campo cattolico.

In che cosa è consistita allora la colpa dei popolari-democristiani? Nel fatto che essi hanno pensato di poter vivere benissimo con il solo “corpo” della politica (il governo, l’amministrazione pura e semplice della cosa pubblica) e in cambio di questo hanno ceduto l’”anima” (ovvero la cultura e con essa le questioni etiche e antropologiche) al tentatore comunista.

Il cuore del problema di questi 100 anni, insomma, non è stato il “partito cattolico” in sé – come voleva Gramsci, per ovvi motivi, con tutte le sue forze – ma piuttosto la separazione, che ad un certo punto è stata accettata dai cattolici, tra anima e corpo del partito, ovvero tra cultura e politica, tra filosofia e azione sociale. Persa l’anima, i cattolici hanno avuto per decenni l’apparenza del potere, ma in realtà chi conduceva la storia era un altro soggetto che, in nome di una mentalità nuova, secolarizzata, attaccava uno dopo l’altro i fondamenti umani su cui si regge la società: la vita nascente e morente, l’educazione, la famiglia.

Ora, la domanda decisiva per l’oggi è: questi 100 anni sono stati un cammino irreversibile, determinato necessariamente a fallire per il solo fatto che il Partito Popolare sia nato e abbia accettato la sfida della Modernità? Oppure, si è trattato di un percorso che poteva essere diverso e che così non è stato per effetto di un errore – drammatico, non tragico – commesso nel cammino da uomini liberi, per l’appunto? Se il peccato – come pare evidente a tutti gli effetti – non è stata la nascita del Partito Popolare/Democrazia Cristiana, ma la separazione che esso ha accettato tra cultura e politica, allora bisogna trarne una lezione per il nostro tempo ed evitare di ripetere questo errore.

Il rischio che infatti oggi si corre è uguale e contrario a quello commesso 50 anni fa: se allora, infatti, si rinunciò alla cultura in nome della politica, oggi, (visto il suicidio della politica cattolica di cui sopra) la tentazione è quella di rinunciare alla politica in nome della cultura.

Ma non sarebbe questo un peccato politico drammaticamente simile a quello che giustamente Del Noce rimproverò ai cattolici nel secolo scorso? Infine, “è se opera” diceva un sacerdote di cultura e di azione come don Giussani: non si può sostenere qualcosa di giusto a livello sociale senza immediatamente mettere in campo un’azione reale ed efficace per operare concretamente per quel qualcosa, anche perché sennò non si è credibili nemmeno nella denuncia intellettuale.

E in particolare oggi diventa ancor più decisivo che i cattolici siano in quell’agone pubblico chiamato politica, perché è dalla politica che stanno arrivando attacchi invasivi e pericolosi quanto mai alla stessa natura umana, a quelle verità originali dell’uomo (nascita, morte, famiglia, amore umano, educazione) che è primario compito della Chiesa annunciare e difendere.

Insomma, se il partito cattolico non “è stato” un errore in sé, ma “ha” sbagliato, perché non cercare di rimediare all’errore? E se non è questo il tempo, quale sarà mai? Proprio il fatto di essere minoranza dovrebbe indurre ancor più a unire le forze e finalmente unire anima e corpo della politica, ovvero cultura e azione, concentrando tutta la battaglia sulle questioni antropologiche che sono il cuore dell’umanesimo cristiano e che sono oggi drammaticamente in pericolo. Anche solo per non ritrovarsi addosso tra 50 anni l’accusa di aver ripetuto l’errore fatale di 50 anni fa…

Umile postilla finale. Il Popolo della Famiglia è attualmente l’unica forza che si sta battendo in questa direzione: bellissimo, ma basterà? L’ultima “prova” che probabilmente gli si chiede è di essere pronto a sacrificare ogni suo interesse, ogni sua rendita di posizione, per togliere ogni alibi agli scettici ed essere finalmente il punto di aggregazione di questa sospirata unità.

 

[Pubblicato il 29/01/2019 su La Croce Quotidiano]

 

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