Lunedì 16 aprile, un tribunale inglese ha deciso che Alfie, un bambino molto malato di 2 anni, deve essere sedato e ucciso, contro la volontà dei suoi genitori. Chi difende questa sentenza dice che “non ne sappiamo abbastanza”. E invece è proprio a partire dall’ammissione di una sana ignoranza che non si può accettare questa decisione.

Parto con una premessa. Non conosco (ovviamente) tutti i dettagli di questa triste storia. Gli stessi medici dell’ospedale di Liverpool che hanno in cura questo bambino di circa 2 anni non hanno ancora capito con precisione da cosa sia affetto (si parla di una malattia neuro-degenerativa non meglio identificata, quasi certamente inguaribile): come potrei capirci qualcosa io? Infatti non lo so. Non so nulla.

Ma è proprio questa mia ignoranza che mi porta a riflettere sull’intera situazione ed in particolare sulla decisione che lo Stato inglese, in accordo con il parere dei medici dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool, ha preso in via definitiva e (probabilmente) inderogabile, e cioè che è necessario “per il suo (di Alfie) miglior interesse” interrompere tutti i supporti che lo tengono in vita (ventilazione, idratazione e nutrimento). È possibile giustificare un’azione del genere? Chi può dire quale sia il suo miglior interesse? Basta essere un giudice per potersi arrogare un tale diritto? Oppure un medico? È possibile che il solo fatto di appartenere ad una di queste due categorie ci dia il diritto di prendere una decisione che va ben oltre il confine di bene o male come lo possiamo interpretare noi in quanto esseri umani?

Eppure chi vuole sospendere le cure ritiene che questa sia l’unica soluzione, data l’irreversibilità della situazione e l’impossibilità di miglioramenti delle condizioni generali di Alfie. Le stesse persone ritengono inoltre che la sua vita non sia degna di essere vissuta, perché qualitativamente inferiore a quella di un qualsiasi altro bambino sano della sua età. Ma come lo sanno? Non lo sanno. Non possono saperlo. Nessuno di noi può presumere di sapere quale vita sia degna di essere vissuta e quale no. Infatti queste persone giustificano la decisione che hanno preso occultandola dietro vari eufemismi, tra cui “fare il suo miglior interesse”, o “ridurre le sue sofferenze”. Non vogliono, o più probabilmente non riescono ad ammettere a se stessi che in realtà quello che stanno per fare somiglia molto più ad una condanna a morte che ad altro.

Ma se è vero che nessuno di noi può sapere che cosa stia provando, né tanto meno che cosa desideri o che cosa voglia davvero Alfie, a chi dovremmo rivolgerci allora? Probabilmente ai genitori, ma anche qui la questione non è poi così scontata come può sembrare. Certamente in un caso come questo il loro parere dovrebbe essere in assoluto quello di maggior rilevanza (anche giuridica), cosa che evidentemente non sta accadendo. Quello che invece sta accadendo è che un tribunale, in accordo con alcuni medici, sta disponendo a proprio piacimento della vita di un bambino, a cui sembra essere stata tolta qualunque possibilità di difendersi.

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