Giovanna Jacob conclude la sua analisi mostrando in questa seconda puntata come l’‘emancipazione’ della donna anche nelle belle arti non sia affatto una conquista moderna… anzi, è dopo il Medio Evo che cominciano i guai per il gentil sesso… [Seconda e ultima puntata]

Jacques Le Goff afferma bellamente che “la prima letterata donna della storia” sarebbe apparsa solo nel quindicesimo secolo nella persona di Cristina di Pisano, “poetessa e filosofa, molto critica con la misoginia dei suoi tempi” (Repubblica, 12/09/2007).

Anche questo è inesatto: le donne letterate pullulavano da molto prima del quindicesimo secolo. Tre soli esempi: Dhuoda (autrice fra il 841 e il 843 del primo trattato di educazione pubblicato in Francia), la badessa Rosvita (autrice di un manoscritto del X secolo contenente sei commedie, in prosa rimata, che influirono grandemente sullo sviluppo letterario dei paesi germanici) e la badessa Herrada di Landsberg (autrice del celebre Hortus Deliciarum, l’enciclopedia più nota del XII secolo). “I poeti del XII secolo hanno ripetutamente vantato le qualità intellettuali delle donne del loro ambiente; Baudri de Bourgueil, scrivendo l’epitaffio di una certa Costanza, dice che era sapiente come una sibilla e fa anche l’elogio di una certa Muriel, che ha fama di recitare versi con voce dolce e melodiosa” (La donna al tempo delle cattedrali.). I poeti medievali lodavano le qualità intellettuali e spirituali delle loro donne, oggi invece la televisione e il cinema celebrano il culto della donna oggetto. A parte questo, già nel 1883 lo studioso Karl Bartsch era giunto alla conclusione che “nel Medioevo le donne leggevano più degli uomini”. Forse non più degli uomini, ma certamente leggevano quanto loro. E quanto loro scrivevano: molti manoscritti portano la firma di copiste donne. In effetti “all’epoca feudale e nel Medioevo, le scuole monastiche istruiscono un po’ dovunque ragazzini e ragazzine…” (op. cit.). Nei conventi femminili, da sempre luoghi di studio oltreché di preghiera, le donne avevano la possibilità di ricevere un’istruzione di livello universitario: ad esempio la religiosa Gertrude di Hefta “ci racconta, nel XIII secolo, come fosse felice di passare dal grado di ‘grammatica’ a quello di ‘teologa’, vale a dire che, dopo avere percorso il ciclo di studi preparatori, si apprestava a passare ad un ciclo superiore come si faceva all’università. (…) D’altra parte, constatiamo che le religiose di quel tempo… sono per lo più donne di grande cultura, donne che avrebbero potuto gareggiare per dottrina con i monaci più eruditi del tempo. La stessa Eloisa [la celebre donna amata da Abelardo – N.d.R.] sapeva, e insegnava alle sue monache, il greco e l’ebraico” (Medioevo un secolare pregiudizio).

Fra i più grandi geni di tutto il Medioevo, accanto a santi dottori come Bernardo e Tommaso, troviamo Hildegarda di Bingen. Nata nel 1098 presso Magonza e morta nel 1179, questa sposa di Cristo non fu solo una grande intellettuale ma anche una grande musicista (i cd con le esecuzioni degli inni e delle sinfonie che ella scriveva per le sue monache ultimamente vanno a ruba nei negozi specializzati, come ha verificato chi scrive). Come più tardi santa Caterina, Hildegarda trovava ascolto presso papi, re, imperatori: “O re”, scrisse a Federico Barbarossa riferendogli le parole che Dio le aveva rivelato in una visione, “se ti preme di vivere, ascoltami, o la mia spada ti trafiggerà”. Nelle sue tre opere principali ella descrive le visioni soprannaturali che aveva fin dall’età di tre anni: il Libro dei meriti della vita, il Libro delle opere divine (tradotto di recente per Mondadori Meridiani Classici dello Spirito) e infine lo Scivias (in italiano: “conosci”). Quest’ultima è un’opera monumentale in cui Hildegarda attraversa con uno sguardo unitario tutti gli ambiti del sapere del XII secolo, dalla teologia alla poesia fino alla musica e alla pittura (comprende miniature con cui ella descrive le sue visioni). “L’analisi della sua opera ha rivelato che aveva avuto prescienza della legge d’attrazione e dell’azione magnetica dei corpi, mentre le sue profezie indicanti astri immobili alla fine dei tempi sono sembrate ad alcuni scienziati l’annuncio della legge della degradazione dell’energia; nelle sue opere si è potuto discernere anche ciò che sarebbe stato oggetto di scoperte scientifiche cinquecento anni dopo la sua morte: il sole al centro del ‘firmamento’, la circolazione del sangue ecc.” (La donna al tempo delle cattedrali). Insomma, sembra proprio che questa Cristina di Pisano “molto critica con la misoginia dei suoi tempi” non sia stata affatto la prima donna letterata del Medioevo, come pretende Le Goff.

INVECE DOPO IL MEDIOEVO…

Pure la “misoginia” è un tratto caratteristico non della cultura medievale bensì della cultura che stava emergendo proprio nel secolo di Cristina: l’Umanesimo. Qualunque studente del liceo classico sa che nella società greca e romana le donne avevano un ruolo del tutto marginale. La cultura classica non ha mai prodotto una grande letteratura d’amore (con l’eccezione della poesia di Saffo e delle riflessioni di Platone sull’eros, entrambi a sfondo omosessuale). Nella letteratura cortese, invece, si parla di cavalieri che venerano la donna amata come “suzeraine”, ovvero “regina” in lingua d’oil. Ebbene gli autori classici insegnavano agli umanisti a non venerare più la donna ma lo Stato. In Francia anche le regine vere e proprie iniziano a contare sempre meno, fin quando “a partire dal XVII secolo, la regina scompare letteralmente di scena a vantaggio della favorita [l’amante del re – N.d.R.]. (…) E quando l’ultima regina di Francia, volle riprendere una particella di potere, ebbe di che pentirsene, infatti si chiamava Maria Antonietta (è solo giusto aggiungere che l’ultima favorita, la Du Barry, raggiungerà sul patibolo l’ultima regina)” (Medioevo un secolare pregiudizio). Non si è mai notato a sufficienza come in Europa l’affermazione dello Stato assoluto e l’esclusione della donna dalla vita intellettuale e politica viaggiassero su binari paralleli. La Pernoud individua la causa efficiente di entrambi questi fenomeni nella riscoperta umanistica del diritto romano, che è “il diritto di coloro che vogliono affermare un’autorità statale centrale” e “il diritto del pater familias“. Conformandosi al diritto romano, le legislazioni dei paesi europei tenderanno a “confinare la donna in quello che è stato, in tutti i tempi, il suo campo privilegiato: la cura della casa e l’educazione dei figli, finché le sarà tolto anche questo, a norma di legge. Infatti, si noti bene, è con il codice napoleonico che la donna non è più padrona neppure dei propri beni e svolge in casa propria solo un ruolo subalterno” (op. cit..).

Al declino femminile diede un contributo fondamentale anche la Riforma protestante. Martin Lutero vietava alle donne di operare al di fuori dell’ambito delimitato dalle tre “K”: Kirche, Kinder, Küche (chiesa, bambini, cucina). Quelle che provavano ad infrangere questo divieto, finivano braccate come “streghe” (Lutero gettava benzina sul fuoco della superstizione anti-stregonesca). Nello stesso periodo il raffinato umanista Erasmo da Rotterdam, nel celeberrimo Elogio della pazzia, definiva la donna “un animale inetto e stolto”.

Le prove di questa nuova temperie culturale misogina, durata fino alla fine del diciannovesimo secolo, sono troppo numerose per citarle in questa sede. Per fare un solo esempio, Giacomo Leopardi non si è vergognato di scrivere che la donna “dell’uomo al tutto da natura è minor” e che nelle sue “anguste fronti” la donna non può contenere gli stessi alti pensieri dell’uomo. “Che se più molli \ e più tenui le membra, essa la mente \ men capace e men forte anco riceve” (dal canto Aspasia). Mentre il poeta dell’era positivista per le donne non aveva che parole di disprezzo, invece il poeta dell’era cristiana per le donne non aveva che parole di ammirazione: “Tanto gentile e tanto onesta pare \ la donna mia quand’ella altrui saluta, \ ch’ogne lingua deven tremando muta \ e li occhi no l’ardiscon di guardare (…) e par che sia cosa venuta \ da cielo in terra a miracol mostrare” (Dante nella Vita Nova). Che abisso separa Aspasia da Beatrice! Negli occhi di Aspasia Leopardi aveva visto il riflesso dell’infinito, una promessa di felicità eterna. Ma quando si era avvicinato alla donna, il riflesso era scomparso: allora si convinse che l’infinito era un inganno, che l’amore era una illusione, che la donna era solo fonte di delusione. Molti secoli prima Dante vide la stessa promessa negli occhi di Beatrice. Ma Beatrice non lo deluse affatto. Nell’ultima cantica della Divina Commedia è Beatrice a condurre Dante fino al cospetto di Dio. Dante ci insegna che non si può adorare la donna senza adorare Dio. L’odio di Leopardi per la donna nasce proprio dalla sua mancanza di fede in quel Dio che solo può compiere la promessa contenuta negli occhi della donna. Insomma, anche Leopardi ci insegna qualcosa di importante: che il declino della fede cristiana è causa del declino femminile e della misoginia affermatasi dopo la fine del Medioevo. Quando tutti gli uomini credevano in Dio, e nella Madre di Dio, rispettavano le donne. Da quando Dio è stato dato per morto, è morta pure la dignità della donna. Ridotta oggi ad essere carne da pornografia.

[L’articolo è stato pubblicato con modifiche sul numero 22 di Pepe nell’ottobre del 2007]

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