Nel cinquantenario del ‘68, ricordiamo uno dei suoi miti tanto immortali quanto impresentabili. Ecco il nudo racconto del lato oscuro di Ernesto Guevara, ovvero di quella “faccia” del rivoluzionario che resta – chissà perché – sempre nascosta ai media nostrani.                                                                           

Ma chi era davvero Ernesto Guevara, al di là di ogni appropriazione indebita (il nomignolo “Che” significa per l’appunto “mio”) del personaggio? Un uomo di pace costretto a fare la guerra per difendere il suo popolo? Oppure, un assetato di potere che sfruttò cinicamente la guerra per la sua carriera politica? Nessuno dei due, si direbbe. Nel senso che per lui la guerra non era un “necessario passaggio” verso altro, ma una vera e propria “ragione di vita”. Nella sua esistenza rivoluzionaria non smise mai di ripetere uno slogan, che oggi diremmo simile a quello di alcuni fanatici terroristi ‘alla Osama Ben Laden’: “Il rivoluzionario deve imparare a odiare e a uccidere, uccidere, uccidere”.

Proprio così, “matar, matar, matar” ripetuto tre volte come una cantilena di morte. Come dimostra anche la sua storia, diventata mito fin dall’incontro con Castro del 1956, in cui Guevara fu scelto da Fidel come “medico della guerriglia”. Raccontano i guerriglieri, che durante il primo combattimento alla Sierra Maestra, Guevara lanciò violentemente la valigetta dei medicinali dicendo: “Datemi il fucile”. La freddezza era ciò che lo definiva. Il suo più grande merito era la volontà di lottare contro l’asma cronica cui era soggetto, ma il dramma della sua personalità consisteva nel fatto che lui “proiettava” la malattia sul presunto nemico. Questa forma fredda di concepire la vita lo portò, non solo a diventare implacabile col nemico, ma anche a sacrificare la vita di molti altri esseri umani, i propri compagni di battaglia. L’indifferenza del Che davanti al pericolo della terza guerra mondiale è un elemento importante in quest’analisi. Lui pensava di costruire un mondo a sua immagine e somiglianza: l’uomo nuovo, sopra le ceneri dell’umanità distrutta. “Bisogna creare, uno, due, tre… tanti Vietnam”: questo il suo messaggio alla Ticontinentale, raduno di rivoluzionari del “Terzo mondo” svoltosi a Cuba nel 1966. Era un appello alla violenza, all’odio: sapeva bene che lì si disegnava un piano di terrore contro l’Occidente. Paradossalmente, però, Che Guevara nacque veramente quando morì. Accadde in Bolivia, occasione in cui l’esercito locale, uccidendolo, fece un ottimo servizio a Castro, al comunismo internazionale e anche ai violenti del Sessantotto: fu da allora che il Che divenne il simbolo dell’ “eroe morto per raggiungere la giustizia sociale” (dimenticando tutti quelli che lui aveva ucciso) e quindi un pretesto alla violenza. Probabilmente, se non fosse stato “santificato” dalla morte in Bolivia, Guevara avrebbe fatto la fine di tanti stretti collaboratori di Castro, eliminati da quest’ultimo perché “facevano ombra” all’unico dittatore: Santamaria, Frank Pais, José Antonio sono alcuni dei grandi nomi scomparsi, che i cubani conoscono e che la storia collocherà un giorno nel posto giusto. L’unico a sopravvivere fu il fratello di Castro, una figura insignificante e fedele fino alla morte a Fidel.

Discorso analogo per i russi, che non lo vedevano di buon occhio, perché aveva avuto l’arroganza di criticare, una volta, il loro operato. Realtà, queste, che vengono tenute accuratamente nascoste dai complici del castrismo in Occidente e altrove. Insomma, così come il Guevara vivo creava interferenze, il Guevara morto sarebbe diventato ottimo materiale per l’opera di strumentalizzazione di Castro e dintorni. E così fu: Castro si impadronì del simbolo per la sua propaganda e ai russi faceva comodo che ci fosse soltanto il fidato Fidel, oppressore del proprio popolo che ha venduto l’anima al diavolo stalinista pur di detenere il potere eterno. Prima di morire, Guevara inviò il suo messaggio chiave al raduno dei rivoluzionari di Asia, Africa e America Latina. E le sue furono ancora parole di odio e di morte. Sapeva, tra l’altro, che lì si disegnava un piano di lotta violenta contro l’Occidente e contro gli americani. E oggi, molti di noi esuli da Cuba si chiedono perché i cubani morti per difendersi dalla “giustizia rivoluzionaria” non hanno diritto almeno allo stesso omaggio che è toccato a Guevara e ai suoi compagni cubani morti per portare la guerriglia in Bolivia.

La Cuba castrista, che è stata sempre un Centro Internazionale di propaganda comunista, esportando e incoraggiando violenza, non solo ha allenato alla guerriglia, ma ha anche mandato in guerra per il mondo migliaia di giovani cubani, costretti a partecipare in conflitti lontani alla loro cultura e anche alle loro coscienze. Inoltre, usando Guevara come un prodotto turistico – compare addirittura dipinto sul sedere delle tartarughe cubane imbalsamate – Castro e i suoi complici fanno propaganda al comunismo. Mentre Fidel Castro, maestro della strumentalizzazione politica, continua ad innalzare la memoria di Guevara nell’intento di far tornare il fervore rivoluzionario ormai addormentato, il popolo cubano rimane nel buio della propaganda. Non sa nemmeno cosa fa l’opposizione perché essa è controllata e repressa giorno e notte. E in Europa, un gruppo di irresponsabili porta la bandiera della pace assieme alle immagini di Guevara. Saranno consapevoli del male che stanno portando alla società? Secondo me, sì. Far fare manifestazioni in nome della pace portando un simbolo di violenza, mi sembra un crimine più che un’idiozia.

E’ per questo che gli adulti italiani devono insegnare ai giovani l’altra parte della storia, ovvero, della vita. Fino a portare luce sulla “zona diabolica” che la strumentalizzazione non vuole far vedere: la menzogna come mezzo per fini malvagi. Quello che si percepisce nelle manifestazioni dei “pacifisti” (oppure quando certi giornalisti o politici parlano alla televisione) è un messaggio di pericolosa nostalgia, indirizzato a risvegliare la zona addormentata della società violenta del Sessantotto e degli anni ‘70. Una frustrazione quasi suicida. Più che meravigliati, siamo amareggiati nel vedere certi politici e giornalisti buttarsi come avvoltoi sulla materia morta degli errori degli uomini o delle debolezze della democrazia, gonfiando d’opportunismo la pancia delle loro ambizioni politiche. Gli stessi che mai faranno una critica ai regimi cinese, cubano, coreano, parlano ad esempio della prigione americana di Guantanamo, ma non hanno l’onestà politica ed il coraggio etico di parlare della “guantanamera” prigione castrista, dove vengono deportati i dissidenti del regime residenti all’Avana, distanti 1000 km dai loro familiari.

[Pubblicato nella sua prima versione sul numero 8 del Pepe cartaceo]

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