Ogni due giorni, in Italia, una scuola paritaria cessa di vivere. Ovvero, detto in parole povere, la scuola cattolica italiana sta morendo. Interessa a qualcuno? Anzi, ad essere provocatori (ma non troppo), interessa almeno ai cattolici?

Questa è in fondo la domanda che il convegno organizzato da Rivista Lasalliana ha posto agli attori più importanti in tema di educazione cristiana, tutti eccezionalmente seduti ad un unico tavolo il 28 ottobre: il vertice della Chiesa Italiana (mons. Galantino, segretario della CEI), il vertice delle Scuole Cattoliche (don Macrì, presidente FIDAE) e il vertice del Governo sull’educazione scolastica (dott.ssa De Pasquale, capo del Dipartimento per il Sistema Educativo), tutti insieme lì, per decidere se il paziente scuola cattolica abbia ancora qualche speranza di vita. Il compito di spronare tutti questi alti comandanti alla risposta è stato di Fr. Donato Petti, responsabile dell’evento (nel cinquantesimo della “Gravissimum Educationis”), e dell’illustre filosofo Dario Antiseri, da decenni alfiere della lotta per la libertà di scelta educativa.

E’ quest’ultimo a illuminare a tutto tondo la questione: in ballo – secondo il pensatore – non c’è tanto un “problema dei preti”, ma la salute dell’intera scuola italiana, compresa quella statale. Se si introduce la competizione libera e aperta tra le scuole, infatti, si aiuta sia la scuola statale che la scuola non statale ad essere migliori. Si tratta di un principio talmente ovvio da essere condiviso da tutto e da tutti, tranne che dalla politica italiana: il Parlamento Europeo (nella risoluzione del 1984), tutte le più grandi nazioni libere (anche quelle più “laiche” come Francia, Spagna, Repubblica Ceca), innumerevoli pensatori di destra o di sinistra, atei o cristiani (da Gramsci a Sturzo, da Russell a Rosmini), tutti ma proprio tutti affermano che lo Stato non può avere il monopolio sulla scuola e deve garantire alle famiglie la libertà di scegliere l’educazione (gestita o no dallo Stato) adatta ai loro figli.

Il che significa una sola cosa, come ricorda concretamente Fr. Donato: arrivare alla parità economica (e non solo a quella giuridica che c’è già). Ovvero, la famiglia, per poter scegliere davvero, non deve essere costretta a “pagare due volte” la medesima educazione (una volta con le tasse elargite allo Stato e un’altra volta con la retta data all’istituto), se sceglie una scuola non-statale. Anche la dott.ssa De Pasquale sembra condividere, ma più sul piano teorico che su quello pratico.

Don Macrì, al riguardo, fa notare, prima ancora che l’”ingiustizia” della faccenda, la sua totale “insensatezza” sia economica che sociale: economicamente, non si capisce perché insistere sulla scuola statale, quando la scuola paritaria fa risparmiare ogni anno circa 6 miliardi di euro allo Stato (ovvero un quarto di una manovra finanziaria!); socialmente, non si capisce perché diminuire l’”offerta” in un momento in cui cresce la “domanda” educativa (richiesta di asili nido, età dell’obbligo scolastico che cresce a 18 anni, attenzione maggiore agli handicap).

Forse il problema vero è – come si domanda drammaticamente mons. Galantino – che l’educazione in quanto tale non interessa più all’uomo moderno. Se pensiamo che ognuno è libero di esprimere qualsiasi sessualità egli “senta” sul momento, di sopprimere qualsiasi vita nascente se lo ritiene utile, di professare qualsiasi idea, di essere totalmente egoista se può farlo, allora il primo ente a dover scomparire è quello educativo: se, infatti, è solo l’individuo che stabilisce il vero e il giusto, allora a che serve l’educazione? Essa diventa non solo inutile, ma addirittura negativa perché ostacola la libertà. Alla base di tutto c’è un problema antropologico, quindi.

La risposta della Chiesa oggi a questa sfida è ancora una volta quella di rilanciare verso l’alto, come nella “Gravissimum Educationis” di cui ricorre il cinquantenario: l’educazione non solo è interessante, ma è diventata di importanza “estrema” (“gravissimum”), proprio perché l’uomo è diventato, grazie al progresso, capace di ampliare notevolmente il campo delle sue libertà. Ovvero, è proprio nel mare aperto delle molteplici possibilità che è più facile smarrire la rotta verso quella “vita buona” che è l’unica a soddisfare il cuore umano (non a caso, la direzione che la Chiesa ha scelto per il decennio 2010-2020 è proprio l’”educazione alla vita buona del Vangelo”).

Insomma, il panorama è chiarissimo: tutti affermano all’unisono l’importanza estrema della scuola cattolica, la quale non deve morire. Ovvero, la diagnosi è evidente: il paziente è gravissimo, bisogna operare. Umilmente, allora – cito la pura cronaca – il sottoscritto, nel momento degli interventi dal pubblico, si alza per fare l’ingenua domanda a tutti i vertici presenti: ”Bene, siamo tutti d’accordo; quindi, noi cattolici che facciamo operativamente, visto che nessuno si muove?”. Mentre la domanda è ancora nell’aria, uno per uno sfilano via dall’aula in silenzio tutti i “capi” lasciando il sottoscritto a bocca aperta con il microfono acceso in mano.

 

[Pubblicato su La Croce del 4/11/2015]

 

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