Il 19 febbraio è morto Umberto Eco, che forse è stato il più grande intellettuale italiano degli ultimi decenni. Come ogni uomo, Eco era più della sua opera. Se dunque non possiamo giudicare l’uomo Umberto Eco, tuttavia abbiamo il diritto e il dovere di giudicare la sua opera. Per arrivare subito al punto, Umberto Eco ha dato un contributo determinante all’elaborazione e alla diffusione della ideologia relativista, che sta finendo di distruggere le difese immunitarie della civiltà occidentale, esponendola al virus della barbarie.

In questi giorni, ho riletto alcuni articoli che Umberto Eco aveva pubblicato su Repubblica nel corso dello scorso decennio. Quello che ho letto mi ha indignato profondamente. Ad esempio, nel luglio del 2007 aveva tentato di convincere i lettori di Repubblica che il cosiddetto relativismo non è brutto come lo dipingono Marcello Pera, Joseph Ratzinger e tutti quelli che ancora credono nell’esistenza di un qualche “Assoluto”. Se per questi ultimi il relativismo filosofico è la causa principale del declino della civiltà occidentale, invece per Eco il relativismo si limita a prendere atto di questo declino, che ad Eco stesso appare inevitabile. Le civiltà, dice Eco, non sono forse mortali come gli individui? E chi l’ha detto che i valori di questa nostra civiltà meritino di sopravvivere? In effetti Eco aveva orrore della troppa salute, dell’eccessiva vitalità, dell’esagerata potenza di cui l’Occidente godeva quando ancora credeva nell’assolutezza dei suoi valori. «Assoluto – scriveva – sarebbe tutto ciò che è ab solutus, sciolto da legami o limiti, qualcosa che non dipende da altro, che ha la propria ragione, causa e spiegazione in se stesso. (…) Diceva Cusano che Dio è come un cerchio il cui centro è dappertutto e la circonferenza non è da nessuna parte. Si può pensare un cerchio con il centro ovunque e la circonferenza da nessuna parte? Evidentemente no». Insomma, secondo Eco questo grandioso fantasma dell’Assoluto non potrebbe essere afferrato dalla ragione ma solo dal sentimento, illuministicamente e romanticamente inteso come antagonista “irrazionale” della ragione. Tuttavia «un conto è dire che una filosofia neghi la possibilità di conoscere l´assoluto e un conto dire che essa neghi ogni criterio di verità – anche per quello che riguarda il mondo contingente. Verità ed esperienza dell´Assoluto sono poi così inseparabili?». Eco dunque ci tranquillizza: il vero relativista non nega affatto la possibilità di conoscere la verità, anzi respinge con forza l’idea, sostenuta da Nietzsche, secondo non ci sarebbero fatti ma solo interpretazioni.

Quindi, Eco cerca di farci capire che il relativismo culturale non avrebbe nulla a che fare col famigerato relativismo morale. Contro le sue intenzioni, egli rafforza in noi la certezza che “relativismo culturale” e “relativismo morale” sono sinonimi. Ma leggiamo Eco: «Che diverse culture abbiano non solo lingue o mitologie diverse ma diverse concezioni morali (tutte ragionevoli nel loro ambito) hanno cominciato a capirlo prima Montaigne e poi Locke, quando l’Europa è venuta più criticamente in contatto con altre culture. (…) Ma il riconoscimento della varietà delle culture in primo luogo non nega che vi siano certi comportamenti più universali (per esempio l’amore di una madre per i propri piccoli, o il fatto che di solito si usino le stesse espressioni facciali per esprimere disgusto o ilarità), e in secondo luogo non implica automaticamente il relativismo morale, per cui non esistendo valori etici uguali per tutte le culture possiamo liberamente adattare il nostro comportamento ai nostri desideri o interessi. Riconoscere che una cultura altra sia diversa, e debba essere rispettata nella sua diversità, non significa abdicare alla nostra identità culturale». In sostanza Eco ritiene di non essere un relativista morale semplicemente perché concede che i valori occidentali possano essere validi perlomeno entro i confini dell’Occidente. E quando i portatori di valori diversi cominciano ad emigrare in massa nella nostra area geografica, che dobbiamo fare? Secondo Eco dobbiamo semplicemente fare loro delle concessioni ed accettare, serenamente, di scomparire noi con i nostri bei valori, perché nella lotta darwiniana fra le identità vincono sempre i più violenti e l’estinzione dei più deboli fa parte delle leggi di natura. Ad esempio, Eco era convinto che fosse assolutamente necessario riconoscere alle famiglie musulmane il “diritto” di spostare i figli dalle scuole dell’obbligo alle scuole in cui si insegna l’islam radicale (come la scuola di via Quaranta a Milano): «Chissà quante di queste negoziazioni non si dovranno fare i futuro per evitare il sangue in una società multietnica» (U. Eco, “La scuola di Milano e il negoziato fra le culture”, Repubblica, 13 luglio 2004)

Eco era molto rispettoso dei valori altrui, anche di quelli dei pedofili: «E’ diverso negare principi assoluti nel campo del conoscere o nel campo dell’agire. Ci sono persone disposte a sostenere che “la pedofilia è male” sia verità relativa solo a un determinato sistema di valori, visto che in certe culture era o è ammessa o tollerata, e tuttavia pronti a sostenere che il teorema di Pitagora deve essere valido in ogni tempo e per ogni cultura». Dunque le persone di cui parla, evidentemente relativiste, trovano più riprovevole lo scolaro che non sa il teorema di Pitagora che non l’adulto che abusa dello scolaro in qualche parte del mondo in cui la pedofilia sia ammessa o tollerata. A dire il vero, Eco non dà segno di volersi dissociare da questi relativisti. Certo, egli ci assicura che nessun relativista potrebbe mai proporre di liberalizzare la pedofilia in occidente ma poi evita accuratamente di spiegarci se i relativisti avrebbero buone ragioni per condannare i pedofili occidentali che vanno ad esercitare la pedofilia al di fuori dei confini dell’occidente. A quanto scrivono i turisti sessuali sui loro siti, i bambini del Terzo Mondo accetterebbero volentieri le attenzioni morbose degli adulti in quanto non sarebbe stata inculcata loro l’idea che il sesso sia una cosa sporca. Ad esempio in un proclama, poi oscurato, pubblicato nel 2000 sul sito della Danish Pedophile Association, si leggeva che, da quando sono in vigore leggi contro la pedofilia, «chi ne ha la peggio sono probabilmente i bambini, che da tutto questo can can finiranno per concludere che il proprio corpo – e la sessualità in generale – è cosa di cui vergognarsi». Ovviamente non è vero che ai bambini del Terzo Mondo piace essere abusati dagli adulti ed è dubbio che le loro culture ammettano la pedofilia. Ma chi l’ha messa in testa ai pedofili l’idea che fuori dai confini dell’Occidente possano fare quello che vogliono, se non i relativisti echiani?

In realtà, Eco non trova particolarmente riprovevole neppure il cannibalismo: «Possiamo capire e spiegare il cannibalismo rituale in società lontane, ma se un membro di quelle società viene da noi deve astenersi dal consumare carne umana, perché da noi non solo è reato – che sarebbe ancora poco – ma un’offesa agli usi e costumi, e quindi alla sorgente stessa dei nostri atteggiamenti passionali. (…) Bisogna rispettare anche le zone d’ombra, per moltissimi confortanti e accoglienti, che sfuggono ai riflettori della ragione» (Repubblica, 29 ottobre 2003). Traduco in parole povere: il cannibalismo è ingiusto in occidente mentre è giusto in Nuova Guinea o in Amazzonia. Noi avremmo tutto il diritto di esigere il rispetto dei nostri valori dagli stranieri che entrano in casa nostra, ma non avremmo nessun diritto di criticare quello che gli stranieri fanno in casa loro. Se hanno voglia di infibulare le bambine, di lapidare le adultere e di cibarsi di carne umana avranno pure le loro buone ragioni (le “diverse concezioni morali” sono “tutte ragionevoli nel loro ambito”).

Certamente, Eco pensa che il cannibalismo, l’infibulazione e altre amene pratiche folkloristiche debbano essere vietati in casa nostra, ma non è convinto che siano oggettivamente ingiuste. Egli crede piuttosto che siano soggettivamente ingiuste, che siano ingiuste per noi, che offendano unicamente noi e la nostra “identità”, la quale affonderebbe le sue radici in «zone d’ombra… che sfuggono ai riflettori della ragione». In altri termini le suddette amene pratiche non sarebbero contrarie alla ragione ma al sentimento, nello specifico al nostro provinciale sentimento “identitario”.

Da bravo epigono degli illuministi bruti, Eco contrappone una ragione ridotta a “ragion pura” scientifico-matematica a un sentimento ridotto a sentimentalismo romantico. Egli ignora che la ragione non è solo una calcolatrice tascabile, buona soltanto per fare qualche calcolo: la ragione è anche la capacità distinguere nettamente il bene dal male e di riconoscere che sono due realtà assolute, che non mutano nello spazio e nel tempo. Egli ignora che il sentimento non oscura la ragione ma la aiuta a ragionare bene. Ad esempio, il disgusto che proviamo di fronte ad un pasto a base di carne umana aiuta la nostra ragione a capire che il cannibalismo è sempre ingiusto a tutte le latitudini. Eco non riesce a realizzare che l’identità culturale-religiosa non è un vago “sentimento” radicato in qualche zona d’ombra del subcosciente ma è innanzitutto un insieme di convinzioni profonde, radicate nelle zone luminose della ragione, che possono anche generare un contraccolpo sentimentale. Infine, Eco non riesce ad accorgersi che non soltanto il sentimento ma anche la ragione anela all’Assoluto, a Dio.

Come abbiamo visto, secondo Eco i valori occidentali non sarebbero altro che espressioni folkloristiche di un irrazionale sentimento “identitario”. In tempi più civilizzati, gli occidentali erano convinti che i valori occidentali fossero i valori stessi della ragione e che dunque fosse loro dovere diffonderli anche presso gli altri popoli. Nel 1539 il teorico dei diritti naturali Francisco de Vitoria tenne una lezione in difesa degli Indios all’università di Salamanca. Dopo avere stabilito che gli indios, in quanto possiedono una razionalità, appartengono di diritto alla razza umana (come Paolo III aveva già affermato nella bolla pontificia Sublimis Deus, uscita nel 1537), sentenziò: «Ogni essere umano, in quanto immagine di Dio, a Lui somigliante, è portatore per natura, prima di ogni positiva aggiunzione, di diritti naturali soggettivi». Colpisce questo passaggio della sua lezione: «Per solidarietà umana e a tutela di quegli indios che, innocenti o indifesi, sono ancora sacrificati agli idoli, o sono assassinati per mangiarne le carni, gli Spagnoli non possono abbandonare le Indie finché non abbiano realizzato scambi politici e commerciali necessari a far terminare quel regime di terrore e repressione» (F. De Vitoria, Relectio de indis, la questione degli indios, ed. Levante, Bari, 1996). Mentre oggi gente come Eco ritiene che gli occidentali non debbano permettersi di giudicare la cultura degli altri ed esige che siano rispettati i diritti dei cannibali, cinque secoli fa il De Vitoria giudicava sbagliati molti aspetti della cultura degli indios ed esortava i suoi compatrioti a difendere i diritti delle vittime del cannibalismo.

Dal De Vitoria ad Umberto Eco ci sono cinque secoli di progressiva decadenza, che culmina oggi nel suicidio culturale, morale e demografico dell’occidente. Quando gli occidentali pensavano che la ragione tendesse naturalmente all’Assoluto, che ogni uomo avesse un valore assoluto, che fosse fatto a immagine e somiglianza dell’Assoluto, l’occidente era in piena salute. Qualche padre della Chiesa disse: «Extra Ecclesiam nulla salus» («Al di fuori della chiesa non c’è salvezza»). Parafrasando questo motto, all’infuori della civiltà occidentale ossia cristiana non c’è civiltà, c’è solo la barbarie. Per questo dobbiamo salvarla a tutti i costi dalla morte annunciata.

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